LA
COMUNITA' PSICOTERAPEUTICA RESIDENZIALE E IL SUO CAMPO MENTALE (*)
LUIGI D’ELIA
INTRODUZIONE
Le esperienze delle Comunità Terapeutiche per il disagio psichico nascono
e si sviluppano nell’alveo della complessa trasformazione scientifica e
storico-culturale che dal dopoguerra ad oggi ha caratterizzato
l’intervento sulla gravità e le emergenze psichiatriche in genere. Fu
l’ultima guerra, negli anni ‘40, con i suoi disastri e i suoi
contraccolpi psicologici, a far comprendere a pionieri quali Bion, Foulkes
e Main in Inghilterra, Sivadon, Tosquelles e Oury in Francia, non solo
dell’opportunità economico-strategica, ma soprattutto dell’opportunità
clinica dell’intervento gruppale e della trasformazione di reparti
ospedalieri in comunità terapeutiche. Non sembra affatto una casualità
l’associazione storica guerra-gruppo-comunità terapeutica: il
conflitto, la crisi collettiva delle coscienze, la possibilità di un
olocausto totale, le ideologie che come fantasmi primordiali prendono vita
e trascinano le folle, la minaccia alla democrazia; tutto ciò pare abbia
attivato esattamente le tendenze opposte della cooperazione, della
circolazione fruttuosa delle idee e degli affetti, di leadership non
oppressive, che facilitano la crescita e l’individuazione delle risorse
individuali al servizio del gruppo e viceversa (quasi come se fosse stata
necessaria una guerra per ricordarci il potenziale distruttivo delle folle
e le effettive potenzialità dei gruppi umani). Un mito di fondazione,
quello dei gruppi terapeutici e delle CT, che trae dal caos -
dall’equazione folla=follia - la sua forza ordinatrice, in un ideale
passaggio dal gruppo acefalo e distruttivo al gruppo terapeutico. In
ambito filosofico-scientifico, la storia di questa trasformazione di
orientamenti, di metodologie, ma anche di setting e di tecniche, è anche
la storia, se vogliamo, di un ideale percorso della psicoterapia da
un’humus epistemologico “tradizionale” cusalistico-lineare e
deterministico, ad un’epistemologia della complessità per la quale sono
valide nozioni come pluralismo evolutivo, circolarità, molteplicità,
campo probabilistico (Aparo-Casonato-Vigorelli; Lo Verso); ma è anche la
storia, nella clinica, della progressiva inclusione di elementi del
contesto di appartenenza del paziente come ulteriori e successivi
arricchimenti ai setting tradizionali. Con la psicosi e con la gravità in
genere, è diventato oggi imprescindibile l’allargamento
dell’orizzonte d’azione della psicoterapia e dei setting che essa
allestisce. Occorre cioé andare sempre più incontro alla realtà
psicopatologica della persona intesa non più solo come una faccenda
individuale e strutturale, ma anche come un problema relativo alle reti
relazionali più prossime all’individuo (famiglia, gruppi di
riferimento) e, ancora, al contesto più allargato della socio-cultura di
appartenenza della persona. Ed infatti, sembra sempre meno giustificabile
l’approccio alla psicosi e ai disturbi gravi attraverso una
“monocultura” dell’intervento, o attraverso l’utilizzo di
strumenti terapeutici univoci e modellisticamente uniformi. Non solo
dunque tendono ad integrarsi i differenti approcci e i vertici di
osservazione anche inizialmente più lontani, ma si tende sempre più a
superare le oramai obsolete dicotomie: riabilitativo/terapeutico,contenitivo/interpretativo,
supportivo/espressivo, intrapsichico/interpersonale, individuale/gruppale,
nella direzione di un’ottica integrata e globale. L’idea di setting
contenuta in questo articolo (setting inteso come campo mentale) vuole
essere un’idea essenzialmente antropologica. Il campo mentale è dunque
qui inteso come una faccenda socio-culturale, cioè come un ambiente
fisico-umano che con le sue caratteristiche e la sua storia è in grado o
meno di contenere il disagio psichico e di “scioglierlo”. Esiste una
sensibile differenza relativa al decorso delle patologie mentali nelle
diverse culture a fronte di una sostanziale parità di prevalenza, a parità
cioè di persone che mediamente si ammalano di psicosi in tutto il mondo.
Ciò che cambia, a seconda della collocazione etno-geofrafica, è dunque
la capacità di certe culture (parliamo di paesi del terzo mondo) di
“sciogliere” la malattia mentale e di assorbirne i contraccolpi al suo
interno; all’interno cioè di una trama di significati, codici e
rappresentazioni socio-culturali che ne diluiscono gli effetti devastanti.
Qui da noi, in occidente, credo che la situazione sia alquanto diversa:
siamo costretti a tamponare il problema della malattia mentale utilizzando
metodi, rappresentazioni e strategie frammentari che segnalano e attestano
la fatica della nostra cultura ad inquadrare e tollerare la follia. E i
risultati si vedono (nonostante i farmaci). La CT residenziale assume
forse allora un’ulteriorità di senso alla luce di queste considerazioni
che c’incoraggia a proseguire la ricerca provando però a guardare in
altre direzioni. L’ambiente di CT diventa allora un laboratorio a tutto
campo di ricerca sulla condizione umana e sul dolore e non più o non solo
una “psicoterapia” alternativa.
INTERVENTO RESIDENZIALE E TIPOLOGIA DI UTENZA
Fatte queste doverose premesse, voglio introdurre il tema dello specifico
di CT, partendo da un tentativo di definizione di contesto. Ma alle
domande: che cosa è una Comunità Terapeutica, come e perchè
“funziona”, non è certo facile rispondere: mancano infatti i criteri
e i dati relativi ai processi di valutazione e validazione dei metodi,
strategie, principi efficienti, che in modi talora diversissimi hanno
caratterizzato questo tipo d’intervento. Possiamo però cominciare col
dire che l’intervento comunitario è innanzitutto un intervento che
utilizza la residenzialità prolungata (temporanea e di medio termine)
dell’ospite a fini terapeutici; esso quindi si caratterizza in primo
luogo per:
1- La continuità del rapporto paziente-CT: la presa in carico della
persona e dei suoi bisogni fondato sulla relazione prolungata nel tempo e
intensiva nel quotidiano, all’interno di una situazione gruppale
permanente.
2- La discontinuità del rapporto paziente-famiglia: il temporaneo
allontanamento (ma non assoluto) dalla famiglia, nei casi in cui questo
sia reso necessario per il trattamento.
(Torricelli F.D., 1997)
Occorre subito precisare che tali modalità vanno a definire un campo
d’azione delimitato, nonchè un’utenza ristretta: la CT non è certo
la panacea o la risposta definitiva al problema della sofferenza mentale (Main),
ma è una delle tante risposte possibili all’interno di una
(immaginabile) rete articolata e differenziata di servizi alla persona,
con obiettivi e metodi peculiari che ne delineano la specificità. Ed
ancora, restringendo l’indagine all’interno delle possibili risposte
di tipo “comunitario-residenziale”, possono coesistere diverse
tipologie di strutture per differenti tipologie di utenza con differenti
bisogni In realtà la gran parte delle CT lavorano su un’utenza di
pazienti “cronici” o su un’utenza mista, e sembrerebbe che siano
davvero rare le esperienze comunitarie che definiscano una precisa scelta
di campo rispetto alla selezione degli ospiti. Questa insufficiente
definizione non aiuta certo, a mio parere, né le CT a focalizzare il
proprio specifico, né i pazienti ad orientarsi verso una CT anziché
un’altra, per cui accade ancora troppo spesso che le domande
terapeutiche si schiaccino drammaticamente sulle poche offerte a
disposizione, spesso ricercate disperatamente, e a volte inadeguate. La
nostra esperienza ci suggerisce criteri selettivi per i quali l’uso
dell’intervento residenziale, temporaneo ed intensivo, sia soprattutto
finalizzato in senso preventivo (di tipo secondario o terziario), ma anche
terapeutico, per un’utenza in grado di usufruire realmente di
un’offerta terapeutico-riabilitativa attivante e trasformativa. Della CT
pare giovarsi, con ottimi risultati, soprattutto quella parte di pazienti
psicotici giovani “con potenzialità evolutive” (Gazale-Stuflesser-Vigorelli),
con i quali sia possibile costruire un’alleanza di lavoro e una
continuità terapeutica sufficiente che sia propedeutica per un lavoro
sempre più mirato di ricostruzione, ristorificazione e
abilitazione-riabilitazione di capacità personali e sociali, e per i
quali è consigliabile un distacco temporaneo dal contesto familiare, pur
coinvolgendo la stessa famiglia nel progetto terapeutico con modalità
differenti. Quest’ordine di precisazioni non va a definire con esattezza
categorie nosologiche, quanto piuttosto una variegata fascia di utenza per
la quale gli aspetti di cronicità, gravità, fattori familiari, fattori
longitudinali, aspetti dell’esordio e del decorso, e aspetti della
sintomatologia (Pao), consentano di svolgere un lavoro basato sulla
relazione e sulla partecipazione quotidiana ad un contesto gruppale. Va
fatta perciò un’analisi della compatibilità dell’intervento
comunitario che varierà a seconda degli obiettivi e dei modelli
terapeutici tipici di ogni tipologia comunitaria, ma soprattutto occorre
valutare, attraverso meticolosi processi diagnostici, a quali bisogni
evolutivi s’intende tentare di rispondere, quali progetti è possibile
attivare e a quali rischi di neo-istituzionalizzazione si può andare
incontro.
LA COMUNITA' “PSICOTERAPEUTICA” E I COSIDDETTI “FATTORI
TERAPEUTICI”
Una terza definizione di contesto riguarda la “qualità terapeutica”
della Comunità per la quale essa è “Terapeutica” per:
3- L’orientamento psicoterapeutico: ovverossia, l’équipe appartenente
alla CT è portatrice di modelli terapeutici, impliciti ed espliciti, è
in formazione permanente, concepisce se stessa ed opera come “parte
terapeutica” del contesto, è in grado di allestire ambienti (fisici e
psichici) idonei dei quali conosce e stabilisce le coordinate
organizzative e affettive (setting) all’interno di una (relativa)
cornice previsionale di percorso.
L’orientamento psicoterapeutico di una CT, aggiungiamo, è dato anche
dalla sua particolare “natura istituzionale”, dalla capacità cioé
dei suoi artefici di revisionare i propri presupposti storico-fondativi e
modellistici all’interno di una continua dialettica
conservazione/cambiamento: tale caratteristica ne fa un’istituzione
“fluida” e flessibile, capace cioé di allestire situazioni curative
“istituenti” piuttosto che “istituite”.
I principi sui quali si può fondare l’orientamento psicoterapeutico
della CT possono essere i più disparati, e corrispondono in genere a
quelli prevalenti nella cultura psicoterapeutica in ciascun momento
storico. Occorre segnalare però, a questo punto, il rischio di
giustapposizione di modelli teorico-pratici nati e sviluppati in contesti
del tutto differenti, e mutuati ed applicati nella “clinica
comunitaria”, in un contesto cioè che, per la sua complessa specificità,
non può essere assimilato ad alcun altro. Questa operazione può talora
condurre a vere e proprie “derive metodologiche” se non a drammatiche
distorsioni mistificanti per le quali la CT diventa un contenitore vuoto
dentro cui si agiscono rigidamente e si sommano gli interventi
“terapeutici” senza alcuna nozione di campo. Si rende necessaria perciò
una maggiore riflessione sulle caratteristiche del lavoro di CT, su cosa
in particolare lo differenzia dagli altri setting terapeutici, su quali
sono i dati salienti e i fattori di efficacia.
La CT dunque è una realtà del tutto a sé stante che richiede una
profonda revisione teorico-tecnica e un radicale cambio di rotta rispetto
ad altri contesti terapeutici, se non altro perché in CT la
multidisciplinarietà e l’integrazione degli interventi s’impone come
metodo. Forse allora occorrerebbe porre l’attenzione maggiormente sul
“campo mentale” di una CT, sulla sua costituzione e fondazione. Questo
cambiamento di focus c’indurrebbe a considerare la “terapeuticità”
di una CT in massima parte nella sua storia, nell’aspecificità degli
elementi fondativi, nel suo particolare “clima terapeutico” piuttosto
che nella sua organizzazione o nel suo modello teorico di riferimento.
Tale cambiamento di ottica corrisponde ad affermare, in un certo senso ed
in maniera anche piuttosto esplicita, coordinate nuove o, se vogliamo, un
differente “sistema di valori” rispetto a ciò che comunemente viene
definito come “fattore terapeutico”. Siamo infatti convinti che in una
CT ciò che in psicoterapia generalmente viene considerato
“aspecifico” assuma quasi paradossalmente una sua cogente e spiccata
“specificità” diventando assolutamente determinante nel destino di
quella CT (e dei suoi ospiti); ci riferiamo ad esempio a fattori di
complessa analizzabilità quali:
· la cultura istituzionale: miti fondativi, storie, antropologie,
declinazioni organizzative;
· la formazione dell’équipe: non intesa qui soltanto come apparato di
conoscenze tecniche o di titoli accademici (pur necessari), quanto
piuttosto come capacità dell’équipe di essere coesa e di costituire un
campo mentale autenticamente “terapeutico”, di avere un pensiero
clinico abbastanza condiviso, di realizzare processi d’integrazione, di
assumersi la responsabilità della presa in carico, di essere capace di
processi osmotici (relazionali, affettivi e produttivi) con la comunità
allargata e con la comunità scientifica;
· i processi relativi all’appartenenza: che riguardano sia gli ospiti
che gli operatori e che definiscono i percorsi dell’identità: ci
riferiamo alla multiappartenenza di ciascuno di noi attraverso la
famiglia, le istituzioni, i ruoli lavorativi, i gruppi sociali ristretti e
allargati. L’attraversamento dell’ospite nella CT e nel suo sistema
spazio-temporale, simbolopoietico e valoriale diventa in questa ottica non
un fattore incidentale e contingente, ma il punto centrale della terapia;
· la quotidianità interstiziale e il clima terapeutico della CT:
l’universo inesplorato di fatti, interazioni, relazioni dei momenti non
strutturati, che come afferma Roussillon, godono dello statuto di
“extraterritorialità” rispetto ai momenti organizzativi codificati, e
che noi ben sappiamo quanto incida sul percorso terapeutico di ogni
ospite. Questo fattore è a corollario del precedente poiché se assumiamo
l’appartenenza al campo mentale della CT come elemento trasformativo,
l’osservazione e l’attenzione sul clima quotidiano della CT e i
movimenti dell’ospite al suo interno nelle situazioni più informali,
diventano i principali indicatori di efficienza del lavoro terapeutico
della CT.
L’analisi del campo mentale di una CT richiederebbe dunque l’analisi
approfondita di ciascuno di questi punti (e probabilmente di altri ancora)
che qui vengono soltanto accennati, secondo metodi anche molto lontani
dalla ricerca in psicoterapia e in psicologia, e forse più vicini alla
ricerca antropologica.
LA QUOTIDIANITA'
La principale e più evidente differenza tra la situazione di CT ed ogni
altra risiede nell’inclusione, all’interno del setting di CT, della
vita quotidiana del paziente e della partecipazione ad essa da parte di
un’équipe polivalente, tanto da fare affermare a qualcuno che il
setting di CT non è altro che la sua quotidianità. La quotidianità in
CT non può ridursi né nello spontaneismo, né nella “tecnica” o
nella bontà organizzativa, bensì essa si fonda sul continuo ripensamento
dei significati che attraversano i mille fatti e le mille interazioni in
CT in ogni sua giornata, sulle infinite riflessioni che gli operatori e
gli ospiti condividono, su ogni segmento della vita di CT, sulla capacità
che l’intero gruppo di CT dimostra nell’essere flessibile, dinamico,
evolutivo (in grado cioè di migliorare i propri standard di vita), ma
anche nell’essere tollerante, contenitivo, riparativo, fiducioso. È
possibile definire tutto questo come la matrice terapeutica della
convivenza che è legata ai fattori aspecifici precedentemente citati. La
CT, inoltre deve poter essere un ambiente domestico, vivibile, non
medicalizzato, ma anche contenitivo e protettivo, con determinate regole
di vita che vengono settimanalmente discusse da tutti nello spazio
dell’assemblea. Il quotidiano di CT sfugge facilmente sia
all’osservazione che all’attenzione “scientifica”: ciò che accade
nei momenti non strutturati, nelle a volte lunghissime giornate, nei
momenti di noia o viceversa di tensione, nei vasti meandri interstiziali
che riserva un qualsiasi giorno in CT, con i suoi mille scambi e mille
situazioni, è il pane quotidiano del lavoro di CT: solo l’attitudine
transizionale dell’équipe, l’esercizio condiviso, allo scambio,
all’alternanza continua tra illusione(speranza)-delusione-disillusione,
nonchè la capacità di lettura e attribuzione di senso di ogni scambio,
costituirà quell’humus naturale che ontogeneticamente precede la
capacità simbolica. Esiste una psicopatologia dell’esperienza
transizionale che è quella che essenzialmente ci presentano i nostri
pazienti di CT e per la quale l’individuo mostra un radicale
disinteresse per lo scambio, un’incapacità di preoccupazione, una
mancanza o carenza di capacità ludica, un’incapacità di lavoro e di
continuità nelle attività, a talora anche una piattezza e banalità di
pensiero e argomentazione. Solo nel contatto quotidiano con la psicosi è
possibile osservarla, pensarla e ripensarla, diversamente
dall’ineluttabilità dell’impotenza verso cui continuamente ci
sospinge. Ma perchè ciò sia possibile occorrono dei “sistemi di
sicurezza”, degli accorgimenti tecnico-organizzativi che consentano agli
operatori di entrare ed uscire continuamente dalle relazioni, dal clima
psicotizzante della CT, per potersi conquistare quella “giusta
distanza” che faccia salva la “funzione pensante” e rappresentativa
presente nel campo mentale: dei “doppi livelli” o livelli multipli di
riflessione, come le supervisioni, le riunioni di équipe, i confronti con
altre esperienze ed altre realtà, etc. L’organizzazione del quotidiano
di una CT allora non può che essere la rappresentazione sulla scena
quotidiana di una mente sana, viva e creativa, una mente-ambiente che
costituisca una gestalt sovraordinata, una rappresentazione
“trascendente” capace di operare i processi trasformativi e di
neo-significazione procedendo dalla “cronaca” dei fatti, delle azioni
di tutti i giorni, fino alla “nuova storia” degli individui e del
gruppo nel suo insieme. Se in una CT si attiva un pensiero condiviso ed un
comune linguaggio nell’équipe, se cioè si promuove una “cultura di
gruppo” che sia orientata da questa trans-scena che a sua volta
rappresenta una mente sana, viva e creativa, il quotidiano confronto di
ogni operatore con la sconfinata apatia o con la noia degli ospiti, o con
il loro fatalismo o impotenza, o ancora, con la loro oppositività, il
loro negativismo, la loro paura e violenza, la loro fragilità, ebbene,
tale quotidiano confronto potrà essere alla pari e talvolta vincente, e
l’operatore non si sentirà perciò mai solo: ogni sua attività,
seppure la più umile e semplice, diventa un tassello di un mosaico, di
paziente co-costruzione di un quadro più integrato e organico; e ciò che
avviene al di fuori dell’ospite di CT, nell’ambiente umano e non umano
che in quel momento lo contiene e lo nutre, ma anche nell’ambiente
“microculturale” costituito dalla CT, potrà diventare il suo nuovo
“cibo per la mente” di cui lui potrà appropriarsi (Searles, 1965). La
“teoria della mente” d’ispirazione comunitaria si costruisce come
tentativo di risposta al problema della psicosi osservata però
dall’osservatorio privilegiato rappresentato dal quotidiano e dalla sua
matrice terapeutica: l’ampliamento dello spettro osservativo ci pone,
come osservatori, in condizioni analoghe a quelle dei contemporanei di
Galileo allorché, ponendo l’occhio sul telescopio, continuavano ad
osservare ciò che già supponevano di conoscere. È senz’altro
possibile affermare che la principale e più evidente differenza tra la
situazione della CT e ogni altra risieda proprio nello strumento
osservativo che la residenzialità costituisce per i curanti: la
quotidiana e compartecipata frequentazione della psicosi ci costringe a
rapide ed impensate integrazioni, a brusche revisioni, proprio perché ciò
che è sotto i nostri occhi è l’ “agito della mente”, presente
nell’hic et nunc in tutte le sue possibili topografie e dimensioni. È
per questo che, nella quotidiana prassi di una CT, l’équipe è
costantemente sottoposta a sollecitazioni “psicotizzanti” che
ripropongono al suo interno gli insanabili conflitti di cui sono portatori
gli ospiti residenti: partendo da questo isomorfismo, ha inizio la
terapia.
AREE MENTALI E LIVELLI FUNZIONALI: UNA GRIGLIA OSSERVATIVA
Nella nostra esplorazione del setting di CT, abbiamo riportato
l’esigenza, per questo tipo d’intervento, di fare riferimento alla
globalità e alla gruppalità della situazione comunitaria come requisito
essenziale del funzionamento della CT. Questo non significa immaginare la
CT come un blocco monolitico che, come una struttura rigida, si muove
tutta insieme e senza mediazioni: la globalità e la gruppalità che
attengono al setting sono ascrivibili alla rappresentazione mentale
dell’équipe e dei pazienti di una delle dimensione sistemiche della CT,
quella che riguarda la CT come macro-sistema, che ha a che fare con il
concetto di totalità come espressione del Sé. Possiamo immaginare questa
totalità macro-sistemica come una delle possibili metafore della mente
umana. Non si presume qui certo di esaurire il concetto di mente umana
iscrivendolo forzosamente all’interno di un contesto ristretto come
quello di Comunità Terapeutica, ma s’intende invece descrivere la
Comunità Terapeutica come una mente umana. Questo ci consente di
visualizzare il passaggio che avviene in CT tra ogni “area mentale” e
la sua “declinazione funzionale” all’interno della sua
organizzazione.
Le aree mentali
Una CT che funziona come una mente sana, viva e creativa, è una CT che è
innanzitutto in contatto con il senso del limite: il limite del sistema
che non è in grado compiutamente d’indagare se stesso; il limite di una
“storia”, unica e irripetibile (quella di ogni CT e del suo gruppo
fondatore), che tende “fisiologicamente” a conservare la propria
identità personale. Accanto a questi limiti “a monte”, ve ne sono
innumerevoli altri relativi ai concetti stessi di “cura” e di
“guarigione”, ma anche, più banalmente, i limiti personali degli
individui e delle loro possibilità, i limiti economici che talvolta sono
decisivi nelle (non) scelte terapeutiche delle CT, i limiti della
socio-cultura di appartenenza in cui si muove ogni CT. Posti i vincoli, è
possibile esplorare le possibilità. Se consideriamo la mente come la
coesistenza di aspetti antinomici, dovremo sforzarci di pensarla
contemporaneamente come unitaria e molteplice (ma anche conscia e
inconscia, femminile e maschile, digitale e analogica). L’assetto
comunitario si pone isomorficamente in corrispondenza dialogica con la
co-presenza degli aspetti antinomici e pluralistici della mente,
consentendo una dialettica trasformativa e feconda tra di essi e, nello
specifico, tra gli aspetti della patologia e gli aspetti della salute
mentale. Il dialogo tra le parti può rappresentarsi di volta in volta su
scenari sempre diversi, e allo stesso tempo su tutti gli scenari.
L’organizzazione di una CT deve poter consentire flessibilmente la
rappresentazione sui molteplici scenari (in tal senso, l’approccio
comunitario alla gravità è un approccio eminentemente di contesto, sul
contesto, attraverso il contesto). Esistono dunque differenti aree della
mente rappresentabili secondo una disposizione circolare e sincronica, ma
anche allo stesso tempo lineare e diacronica:
· un’area duale (l’area della relazione primaria);
· un’area di piccolo gruppo (l’area delle relazioni più prossime:
famiglia reale o fantasmatica);
· un’area di gruppo allargato o mediano (l’area dell’appartenenza
“microculturale”);
· un’area sociale (l’area dell’appartenenza “macroculturale”-metacontestuale-antropologica).
Con questo schema non s’intende presentare un modello d’intervento,
quanto piuttosto, e più semplicemente, una delle tante possibili griglie
osservative. Se consideriamo l’assetto patologico come una condizione
pervasiva che investe, in modo e misura differenti, tutti i livelli di
funzionalità, da quello duale fino a quello sociale, l’ambiente di CT
si costituirà come “contesto riabilitativo” ad ampio raggio
contemplando interventi mirati sulle singole aree mentali e un intervento
integrato sull’insieme delle aree mentali, a seconda dei bisogni e dei
profili di ciascun paziente. Ogni area mentale deve poter trovare,
all’interno dell’organizzazione di CT, un suo campo di significazione
ben preciso, una sua “zona franca” ove sia possibile declinare la
specifica dinamica relativa al funzionamento di ogni specifica area: ogni
area avrà dunque un luogo, previsto organizzativamente, dove poter
registrare, leggere, pensare e restituire. Secondo la loro
rappresantibilità circolare, ogni area è transizionale rispetto a tutte
le altre; secondo la loro rappresentabilità lineare, vi è un vettore
evolutivo che procede dal livello duale a quello sociale. La CT
“funziona” soprattutto nel primo modo: opera cioé sulla
transizionalità circolare delle aree mentali; ma la CT opera anche,
linearmente, come istanza di differenziazione. Non è pensabile, sulla
base di quanto andiamo affermando, un lavoro di CT che non prenda in
considerazione la globalità della situazione comunitaria come principio
cardine del setting di CT:
· la globalità spazio-temporale di assetto della CT;
· la globalità del campo relazionale;
· la globalità del percorso terapeutico.
La scena duale
L’area duale è il luogo della sintonia con gli elementi di regressione
del paziente grave ed il luogo della dinamica transferale (in senso lato).
Il suo bisogno di referenzialità “forte” e individualizzata non può
essere inteso soltanto come bisogno difensivo pre-edipico, ma anche come
necessità imprescindibile di sostegno e contenimento personalizzato.
Rispettare la bi-dimensionalità simbiotico-fusionale del paziente grave
(con tutti i suoi correlati evacuativi, proiettivi, divoranti,
totalizzanti) considerandola come una risorsa, anzichè come un limite o
un ostacolo da superare, consente di partire da un terreno di potenzialità.
Sul campo delle relazioni duali si giocano spesso le partite più
importanti, si possono evidenziare i bisogni più antichi, le
disfunzionalità più profonde, i segreti meno condivisibili. L’ascolto
accogliente e attento di un operatore (uno in particolare e stabile) verso
l’ospite di CT, la sua capacità di tenerlo a mente, di rappresentarlo
quotidianamente nelle istanze più arcaiche, di proteggere le sue fragilità
narcisistiche dalle aggressioni della realtà, fino a sostituirsi a lui
nei momenti di difficoltà, laddove non ci possono essere né parole né
pensieri che lo rappresentano; la possibilità ancora di questo operatore
di sintonizzarsi con l’ospite sul registro del fare quotidiano, di
costruire con lui “pezzi” sempre più articolati di azioni finalizzate
perchè pensate all’interno di una relazione; la possibilità di un
confronto intimo e speculare, che apra la strada a nuovi processi
d’identificazione, seppure attraverso l’idealizzazione o le dinamiche
schizoparanoidee dell’identificazione proiettiva, ebbene, tutto questo
deve poter essere previsto e deve potersi dispiegare nella CT nel faticoso
contatto quotidiano con il paziente grave.
L’area duale è allora anche il luogo della instancabile ricerca
dell’alleanza con l’ospite di CT, un’alleanza che non sia fine a se
stessa, che non si risolva cioè in una “faccenda a due”, ma che sia
propedeutica all’ampliamento dell’orizzonte relazionale, alla
comprensione e significazione dei fatti che avvengono nei diversi contesti
quotidiani all’interno e all’esterno della CT. L’area duale è un
ponte che consente all’ospite innanzitutto di ambientarsi nella nuova
realtà e successivamente di proseguire un suo percorso in CT protetto e
rappresentato da qualcuno che si occupa e si preoccupa di lui, un
operatore capace di mediare laddove il paziente non sia in grado di farlo,
vicariandolo come “filtro” nelle svariate interazioni istituzionali
(con i servizi invianti, con la famiglia, con le istanze interne alla CT,
con il sociale).
La scena del piccolo gruppo
Questo livello funzionale della mente è il luogo della fantasmatica
familiare, il campo cioé di rappresentazione del teatro familiare
interno, delle sue trame e dei suoi copioni (che nelle gravità diventano
“sintomi”, rappresentazioni autoreferenziali che tendono
cancerosamente a riprodursi sempre identiche a se stesse), il campo
dell’affettività e dei sentimenti “familiari” e delle sue modalità
dinamiche. F.Fornari, parla di fondazione immaginaria del collettivo, con
un proprio vocabolario minimo ed una propria codificazione costituita da
pochi essenziali simbolizzati (i coinemi) i cui scopi sono sia quello di
fornire un modello mentale di significazione interrelazionale, sia di
“programmazione istituzionale”. Quest’ottica si avvicina molto
all’idea del gruppo interno come fondazione multipersonale della mente.
La matrice familiare è rappresentabile sia attraverso i simbolizzati dei
codici affettivi parentali della famiglia (padre, madre, figlio,
fratello), sia attraverso le modalità rappresentative relazionali
peculiari di ogni famiglia. Un ospite di CT attiva automaticamente
all’interno del campo gruppale allargato il suo personalissimo piccolo
gruppo familiare e la sua specifica fantasmatica, dislocandola
nell’ambiente e spazializzandola proiettivamente sulle figure reali e
fantasmatiche dell’équipe e del gruppo di compagni. Così come abbiamo
già detto a proposito dei movimenti regressivo-fusionali dell’area
duale, la riproposizione nell’attualità del “sintomo” familiare
fantasmatico interiorizzato, non è un ostacolo, bensì un altro punto di
partenza della terapia comunitaria. Farsi carico di questo per una CT vuol
dire essenzialmente allestire uno spazio di pensiero sulla peculiarità
delle dinamiche relazionali di piccolo gruppo. In questo caso, il
contenuto delle relazioni non è più il transfert all’interno di uno
scambio binario, bensì la matrice di gruppo all’interno di uno scambio
multipersonale traspositivo. Tale campo mentale rappresentato dalla
matrice di piccolo gruppo assumerà però, all’interno di una comunità,
significati coerenti con la situazione particolarissima che contestualizza
l’intervento di CT, che, come già detto, si caratterizza per i fattori
della residenzialità e della quotidianità, nonchè per la gravità dei
pazienti presenti in CT. Il lavoro di “dinamizzazione” delle matrici
patologiche personali e familiari degli ospiti passa perciò,
nell’intervento di CT, attraverso un preliminare e faticoso lavoro
sull’analisi puntuale della convivenza, dell’appartenenza e della
“ritualità”, e attraverso un paziente lavoro di “analisi della
realtà quotidiana” nella instancabile e costante co-costruzione dei
progetti, terapeutici e di vita, condivisi tra l’équipe e il singolo
paziente. La cultura della condivisione si attiva in prima istanza nel
piccolo gruppo e in seconda istanza in quello allargato: questo apre la
strada ai fenomeni del rispecchiamento e all’apprendimento
interpersonale su di sé e sui propri sentimenti. Occorre però tenere
presenti le esigenze di contenimento e regolazione di alcuni pazienti
gravi: il piccolo gruppo deve poter assolvere anche a queste funzioni
basiche considerandole come fondanti della coesione di gruppo e quindi
come fondanti la coesione del Sé. In questo senso, il riferimento
personalizzato di ciascun ospite con un operatore deve potersi integrare
con il riferimento di quello stesso ospite ad una piccola équipe che si
prende cura di lui e, più in generale, ad un campo di piccolo gruppo
(costituito da operatori e ospiti) di appartenenza privilegiata dove
possano dispiegarsi le differenti rappresentazioni e le differenti
funzioni. L’ospite di CT troverà un posto sia nella mente di un
operatore (ma anche, se opportuno, di un terapeuta individuale) sia nella
mente di un gruppo. E’ impensabile che un solo operatore possa farsi
esclusivamente carico della psicosi di un paziente e che da solo
rappresenti per lui le istanze combinate di accoglienza-sostegno,
normatività, alleanza e principio di realtà. Il piccolo gruppo è allora
quello spazio elettivo e protetto dove poter introdurre, con modalità non
persecutorie, il principio di realtà. La collocazione del piccolo gruppo
va però vista all’interno di un assetto globale dove coesistono tutti
gli altri livelli funzionali ai quali il livello di piccolo gruppo va
integrato. Il lavoro d’integrazione deve avvenire a livello di
elaborazione dell’équipe complessiva della CT nei termini di
comunicazione efficiente tra le parti e di riflessione permanente sul
modello.
La scena del gruppo allargato o mediano
Il gruppo allargato di una CT corrisponde, in termini strutturali (non in
termini di modello terapeutico), alla definizione di De Maré relativa al
gruppo mediano costituito da un numero di componenti compreso circa tra
20-40, considerando la co-presenza nel campo mentale di ospiti e
operatori; una struttura antropologica di base intermedia tra la famiglia
e la società. Lo studio delle dinamiche del gruppo intermedio è appena
agli inizi.
Il gruppo allargato utilizza, secondo De Maré, lo strumento della
“cultura” intesa “come risultato della contrapposizione tra
l’individuo e la struttura sociale”, il suo “testo” è il dialogo
con una realtà che è pero “aperta alla negoziazione”, il suo campo
di azione e di esplorazione è il conscio. Nel gruppo allargato della CT
ci si trova però di fronte massimamente alla qualità propria
dell’organizzazione con il funzionamento tipico del gruppo di lavoro con
i suoi obiettivi, i suoi tempi scanditi, le sue attribuzione di
significato, le sue gerarchie (ed in questo in particolare differisce dal
gruppo mediano terapeutico: ci riferiamo alla copresenza in CT di 2
gruppi, quello degli ospiti e quello degli operatori). Il gruppo allargato
della CT diventa ben presto un universo microculturale con le proprie
leggi e categorizzazioni interne, talvolta alternative o in contrasto con
la macrocultura sociale (se non altro per il clima di tolleranza e
democrazia che vi è spesso in una CT e che “fuori” è ben più
difficile trovare), talora invece contigue e osmotiche. Tale microcultura
“terapeutica”, sviluppa l’appartenenza dei propri membri
all’interno di un sistema di significazioni e di rappresentazioni
mediando attraverso il dialogo e lo spirito di ricerca che le sono propri,
e consentendo all’ospite di CT di modificare i propri codici
sub-culturali familiari e sociali. La terapia comunitaria nel gruppo
allargato corrisponde inoltre al continuo sforzo dell’équipe di
preservare il funzionamento tipico del “gruppo di lavoro” che incide
sul livello conscio e sulle potenzialità di apprendimento (come ad es.
apprendere ad avere un proprio posto, un proprio spazio di parola, propri
diritti e doveri) degli individui. La CT deve saper promuovere quella che
De Maré chiama “dimensione laterale” od orizzontale, tipica del
linguaggio del gruppo allargato, quella “cultura del dialogo” che non
appartiene agli stadi narcisistici dei pazienti gravi: la dimensione
laterale, by-passando quella verticale e gerarchica, accede al confronto
“realistico” multipersonale che De Maré definisce come “setting
pre-politico”, un setting cioè che è transizionale tra quello
familiocentrico e quello sociale a metà strada tra parentela e amicizia,
tra consanguineità e società. Il lavoro terapeutico delle CT a livello
del gruppo mediano è quello senz’altro meno esplorato, ma allo stesso
tempo è probabilmente il lavoro più specifico poiché è su questo
livello che si dispiegano i percorsi dell’appartenenza qui intesi come
percorsi che attivano nuovi temi culturali che sono in grado di
trasformarsi in eventi simbolici per l’ospite di CT. Normalmente questo
“fattore terapeutico” agisce (quando agisce) in maniera implicita e
latente, all’insaputa dei curanti. Il passaggio di un ospite
all’interno del campo mentale della CT non si risolve certo in
un’operazione meccanicistica di “riparazione” di aspetti
disfunzionali, ma si tratta di un’esperienza che incide profondamente
sulla sua identità e sulla sua personalità. Tale incidenza trasformativa
utilizza precipuamente strumenti culturali: modalità relazionali, prassi
e consuetudini gruppali e istituzionali, nuovi stili narrativi, nuove
declinazioni simboliche della realtà, nuove gerarchie valoriali, nuove
scansioni spazio-temporali, nuovi interessi. Tutto ciò, secondo la nostra
esperienza, risulta essere più “terapeutico” di molti altri
interventi ritenuti comunemente efficaci e richiede una permanenenza
temporalmente di media durata (2-4 anni).
La scena sociale
L’area sociale è l’interfaccia mentale di tipo metacontestuale: essa
precede e contiene individui, famiglie e gruppi così come contiene le
aree duali e gruppali della mente. Nella patologia grave molto spesso
anche questa dimensione mentale è disinvestita e successivamente vissuta
come pericolosa e intollerabile: in questo caso, la dimensione sociale
“transpersonale” emerge nell’individuo e nella sua corporeità nella
sua forma panica e demoniaca, senza cioé alcuna mediazione simbolica e
culturale. Non a caso, le forme deliranti assumono sempre degli
“organizzatori sociali automatici” sottoforma di stereotipie,
personaggi, situazioni e schemi ricorrenti e socio-culturalmente definiti:
Dio, il Diavolo, il Potente, l’Aristocratico, Il Persecutore, il
Perdente, il Deviante, il Bello o il Perfetto (il Magro), il Brutto, etc.
Diciamo subito che a livello dell’area sociale e delle sue
rappresentazioni il lavoro della CT diventa più complesso, ed il rischio
di brutali semplificazioni è sempre dietro l’angolo. Ci riferiamo in
particolare alla frequentissima burocratizzazione dell’intervento
sociale e all’interpretazione di esso nei termini di intrattenimento
ergotaerapico, o di sterile attività di “socializzazione”: in questo
caso è la psicosi (ma non la psicosi della persona sofferente, bensì
quella sociale) che vince nella misura in cui include tutta la società e
i suoi rappresentanti istituzionali nel suo delirio. Il lavoro sociale
della CT è quello di costruire le condizioni di un apprendimento/riapprendimento
sociale, e questo può avvenire soltanto all’interno della circolarità
transizionale della mente di cui la CT si prende cura globalmente, se cioé
l’esperienza di CT, nel suo insieme, per un paziente risulterà
realmente “correttiva” e riparativa, se riuscirà a fare proprie
modalità relazionali, strutture mentali sane, se riuscirà a trovare,
attraverso la CT, un luogo (interno ed esterno) di appartenenza,
d’identità, di apprendimento di valori quali la partecipazione, la
solidarietà, il dialogo, l’amicizia, l’amore. In questo senso, la CT
diventa quel mediatore simbolopoietico e culturale che è mancato nella
storia psico-socio-patologica del paziente, un possibile ponte che
congiunga sponde in precedenza lontane. Il lavoro delle CT sull’area
sociale della mente va posto innanzitutto come un “a priori” che
riguarda il modello terapeutico e l’approccio alla gravità. Non
crediamo né alla Comunità-Famiglia alternativa alla famiglia naturale e
alla società (pur essendo questo il mandato sociale prevalente e, a
volte, l’unica strada praticabile) che taglia fuori il mondo esterno
perché persecutorio e inaccogliente, né alla Comunità-Dormitorio dove
l’enfasi dell’adattamento a tutti i costi ai criteri prestazionali
taglia fuori i bisogni di appartenenza e di costruzione d’identità
dell’individuo. La CT deve essere in grado di pensare al “dopo” dei
propri pazienti già dal loro ingresso, in termini realistici e
soprattutto lo dovrà fare con altri soggetti (famiglia, altre
istituzioni), ma lo dovrà fare pensando in primo luogo alla propria
collocazione socio-culturale: se è in grado di dialogare con altre
istituzioni o di attivare un dialogo laddove esso sia carente; se è in
grado di stabilire legami e alleanze territoriali significativi e
duraturi; se è in grado di coinvolgere le famiglie nei progetti
terapeutici; se è in grado di immaginare la vita dei propri ospiti al di
fuori del proprio dominio; se è in grado di concepire se stessa come una
realtà osmotica i cui confini sono permeabili (la CT che occupa
l’esterno e l’esterno che occupa la CT); se è in grado di preparare
l’uscita dei pazienti; se è in grado di partecipare al dibattito
scientifico-culturale sulla psicosi; se in grado, infine, di formare i
propri operatori allo specifico lavoro di reinserimento sociale. Va detto,
ad onor del vero, che la storia “antiistituzionale” italiana che ha
prodotto le rare e insufficienti esperienze comunitarie, ha posto queste
ultime in una posizione di marginalità e di contrapposizione, nonché di
minoranza. Questo, fino ad oggi, ha reso la vita delle CT, pubbliche e
private (privato-sociale), davvero molto difficile, con esiti molto spesso
negativi: si ripropongono ciclicamente problemi di disconoscimento e
disconferma del lavoro svolto dalle CT relativi alla stessa opportunità
di questo tipo d’intervento; si riattivano modalità subdole di
boicottaggio “burocratico”; si rende impraticabile il lavoro di rete e
di collaborazione tra i servizi, che sembrano parlare linguaggi del tutto
differenti; si continuano ad ignorare le peculiarità dell’intervento
comunitario attraverso processi perversi di delega per pazienti di cui
“non si sa che farne”. Un’équipe di CT deve essere pienamente
consapevole di appartenere ad un tale contesto sociale multiforme dove
coesistono drammatiche contraddizioni, ambiguità e processi di
alienazione, ma dove vi possono essere enormi potenzialità da utilizzare:
basti pensare allo sviluppo delle imprese sociali e alle innumerevoli
risorse sociali di umanità e di mezzi a cui la stessa CT può accedere se
soltanto accogliesse tali contraddizioni come uno degli aspetti del lavoro
con la “psicosi”. In questo senso, la cultura istituzionale, incarnata
da responsabili e operatori e dalla loro capacità organizzativa ma anche
dalla loro fantasia, diventa quel fattore discriminante che consente
all’ospite di CT di “praticare” il mondo sociale senza grandi
tensioni e senza troppe sollecitazioni alla competizione.
IL LAVORO CON LE FAMIGLIE E LA PRESA IN CARICO DELLE MULTIAPPARTENENZE
DELL’OSPITE DI CT
LA SEPARAZIONE
Abbiamo detto in precedenza, tra le definizioni di contesto della CT,
della discontinuità del rapporto paziente/famiglia che in ogni caso si
viene a creare con l’ingresso dell’ospite in CT. Tale discontinuità
non significa in alcun modo sradicamento, riazzeramento e reinfetazione
dell’ospite nella CT, come in alcune realtà comunitarie avviene nella
speranza che alla rigida separazione fisica dalla famiglia corrisponda
anche una separazione psichica ed un’emancipazione maturativa, ma si
tratta di un progetto che avviene col consenso di tutte le parti in causa:
paziente, famiglia, CT, servizio inviante, che sono qui intesi tutti come
clienti del servizio della stessa CT e nodi di un’unica rete. È dunque
una separazione puramente “strategica”, non assoluta, che non assume
certo i caratteri di radicale frattura o peggio di abbandono da parte
della famiglia, ed è una separazione a cui di per sé non consegue né
alcuna certezza terapeutica, né alcun cambiamento interno del paziente.
Ricordiamo infatti con Torricelli (1997, 1998) che:
<<L’allontanamento del paziente dal suo contesto originario,
infatti, per quanto comporti la separazione fisica, non costituisce
tuttavia una soluzione di continuità rispetto al meccanismo familiare di
strutturazione della psicosi, come dimostra tutta la pratica manicomiale:
in mancanza di stimolazioni dall’esterno la famiglia semplicemente “si
ristrutturerà sull’assenza” del paziente designato, ma sempre e
comunque all’interno delle regole e delle modalità relazionali usate in
precedenza, lasciando così di fatto immodificate la condizioni che
sostengono la sintomatologia psichiatrica>>. Senza il consenso
esplicito e l’alleanza di paziente e famiglia, riguardo la proposta
progettuale della CT, risulta a mio parere vano e velleitario ogni
tentativo terapeutico, così come risultano ingestibili quelle situazioni
per le quali non è consentito al paziente di contattare e rivedere la
famiglia, considerata, a torto o a ragione da parte degli operatori della
CT, la fonte patologica e l’origine di tutti i problemi del paziente.
Quando gli operatori colpevolizzano la famiglia (anche soltanto
implicitamente) è già probabilmente in atto una dinamica collusiva (che
però alcune volte appare un passaggio obbligato) che di fatto ostacola la
comprensione del paziente e lo svolgimento del percorso.
LE STORIE
La prospettiva che qui viene proposta è quella che parte dal considerare
la famiglia ed il paziente di cui fa parte, come il punto di arrivo di una
lunghissima storia di cui nessun membro della famiglia, e il paziente meno
che mai, è veramente e consapevolmente portatore, ma soltanto
“esecutore”. Il paziente è dunque l’ultimo capitolo di una trama
transgenerazionale che appare sconosciuta. A fronte di questa impossibilità
di visualizzazione da parte dei membri della famiglia delle vicende e
delle connessioni storiche, gli operatori della CT dovrebbero fare
attenzione ad entrare nel mondo familiare del paziente con la massima
circospezione come converrebbe che facesse chiunque entrasse in un
territorio inesplorato. Risulta dunque che le storie familiari di cui sono
rappresentanti gli ospiti della CT, sono quasi sempre storie che ad un
certo punto s’interrompono, o meglio ancora, sono storie che
s’impantanano in territori di non-senso, conducendo il paziente a
frenare, anche bruscamente, il suo percorso maturativo e a bloccare ogni
compito evolutivo personale e sociale: la persona si isola, si chiude in
casa, disimpara a lavorare, a studiare, a frequentare gli amici, a
contattare i partners, ad interessarsi di aspetti creativi: entra in una
circolarità “viziosa” nella quale esiste solo il disagio ed i
sintomi, ultime vestigia di una comunicatività divenuta impossibile,
residui tossici privi di significato, quasi come se alcune parti della
mente fossero morte o danneggiate. Ciò che sembra avvenire è che il
paziente e, molto spesso, la sua famiglia non sono più in grado di
leggere la realtà ed interagire con essa, come se la storia di cui sono
portatori non consentisse di procedere oltre: qualcuno si ferma ai compiti
adolescenziali fermandosi sul bordo della vita adulta o molto prima
(studi, servizio militare, primi compiti sociali, lavoro, affetti,
sessualità); qualcuno sembra andare oltre: sostiene i primi esami
universitari, o si laurea, o si sposa, mette su famiglia, lavora più o
meno stabilmente, ma all’improvviso sembra non riuscire più a sostenere
i propri compiti e i propri ruoli. Queste storie familiari, inoltre,
contengono sempre dei traumi antichi o recenti: lutti, separazioni,
trasferimenti, fallimenti economici, tradimenti, eventi incomprensibili e
improvvisi, tentativi emancipativi andati a vuoto,
frustrazioni-castrazioni-umiliazioni-vergogne non metabolizzate, etc..
L’aspetto che invariabilmente, in tutte queste storie, è evidente agli
occhi dell’osservatore o del terapeuta è che quello che appare
incrinato e compromesso è proprio il passaggio dell’individuo tra il
mondo familiare e quello sociale, un passaggio - un ponte crollato - che
non consente più gli attraversamenti che in precedenza sembravano più
agevoli tra i due mondi. Il paziente “cade” o “recede”
all’interno di una monoappartenenza che coincide con la propria storia
familiare divenuta insufficiente nel raccontare il mondo o parti
essenziali di esso. L’individuo (e la sua famiglia) non maneggiano più
(o non hanno mai maneggiato) i codici socio-culturali e si vedono
costretti a raccontare una storia molto semplificata di se stessi e della
realtà circostante; il paziente, dal canto suo, tenta di raccontare
un’altra storia, la sua storia, una storia che disperatamente salvi le
“capre” della sua appartenenza e della sua pesante storia familiare e
i “cavoli” dei suoi desideri emancipativi al di fuori del modo
familiare. Ma questo tentativo segna l’inizio della “malattia” poiché
la capacità simbolopoietica dell’individuo risulta a questo punto in
larga misura carente o impossibilitata a svolgersi, e la storia che ne
vien fuori è spesso una teoria alternativa alle codificazioni sociali
(delirio), o una non-storia fatta di silenzio e di non-senso
(depressione), o una storia estremamente conflittuale nella quale non c’è
posto per il narratore (disturbo di personalità). Viene a mancare dunque
un’autentica multiappartenenza dell’individuo, viene a mancare cioè
una “sana dieta mentale” che consenta di integrare gli “alimenti”
e di nutrire la mente dell’individuo con cibo opportunamente scelto al
di fuori della cucina di casa. Il lavoro della CT diventa allora quello di
riattivare e rivitalizzare quei processi interrotti dalla malattia, che
nell’ottica qui utilizzata, corrisponde a lavorare intensamente con le
famiglie degli ospiti di CT affinché si rimettano in circolo ed in
collegamento quelle storie sepolte o se-cluse che sono alla base dei
problemi del membro familiare e che permetta ad esso di muoversi
attraverso altre appartenenze con un maggiore grado di libertà. È
possibile immaginare diverse situazioni in cui avvenga l’ascolto dei
temi e delle storie familiari:
· incontri periodici con le singole famiglie alla presenza dell’ospite;
la finalità esplicita di questi incontri può essere variamente definita
a seconda della famiglia, ma ribadendo in ogni caso l’interesse e
focalizzando l’attenzione sulla storia, remota e attuale, della
famiglia, come aspetto importantissimo e imprescindibile del lavoro
terapeutico;
· incontri periodici con il solo gruppo dei familiari degli ospiti (senza
la presenza degli ospiti); una sorta di “comunità parallela” di
parenti che si costituisca come gruppo autonomo che nel tempo acquisisca
la capacità di confrontarsi, di raccontarsi e di sostenersi;
· incontri periodici con tutti i familiari e tutti gli ospiti secondo il
modello di Garcia Badaracco (modello che a mio parere risulta essere
difficilmente esportabile).
Tale lavoro può essere svolto dunque in molti modi e con molte tecniche (gruppoanalitiche,
psicodrammatiche, psicoanalitiche, sistemico-familiari, etc.), ma ciò che
più conta è mantenere la tecnica e le finalità terapeutiche
“dirette” sullo sfondo: gli incontri dovrebbero avvenire in un clima
di accoglienza, cordialità, collaborazione e informalità, senza cioè
che le famiglie sentano in alcun modo di essere sottoposte ad interventi
terapeutici o peggio ancora a processi sommari (ricordiamo infatti che la
“domanda terapeutica” che la famiglia fa su se stessa è quasi sempre
formalmente assente, proprio perché totalmente focalizzata su un solo
membro). È importante quindi che vi sia da parte dei conduttori una
grande capacità di empatia oltre una grande pazienza e rispetto per le
difficoltà dei familiari: una presenza “leggera”, ma comunque attenta
e orientante.
L’ANALISI
DELLE ASPETTATIVE
Vanno chiariti, inoltre, prima ancora dell’ingresso del paziente in CT,
i termini e i motivi della partecipazione della famiglia alle attività
della CT. È fondamentale infatti con ogni famiglia il lavoro
“contrattuale” precedente all’ingresso, durante cioè la fase di
conoscenza (dia-gnosi) e di preparazione del futuro ospite e della sua
famiglia. Tale lavoro può svolgersi con una serie di incontri preliminari
nei quali sia possibile svolgere una serena ma puntuale analisi delle
aspettative riguardante tutti gli attori in gioco. Infatti, già da tali
aspettative si evincono una serie di informazioni utili per lo svolgimento
del progetto stesso. Spesso queste aspettative sono, in un certo senso,
“alterate” dalla condizione patologica di cui è portatore il
paziente, e risultano, da parte dei diversi soggetti, a volte
irrealistiche e sopravvalutanti, a volte insufficienti e svalutative, a
volte inesistenti, altre volte ancora malriposte e inadeguate, il più
delle volte tutto ciò insieme e contemporaneamente. Una delle possibile
chiavi di lettura eziologica del disturbo del paziente è il vertice di
osservazione delle aspettative familiari: il paziente sembra essere stato
da sempre al centro di aspettative errate o di “desideri impossibili”
da parte del suo ambiente di crescita; egli diventa dunque portatore di
una domanda esistenziale che non gli appartiene e portavoce del
“desiderio inadeguato” di qualcun altro. Questa “storia” sembra
perciò ripetersi con tutti coloro che di lui si prenderanno cura. A
conferma di ciò è infatti facile osservare, riguardo le aspettative sui
pazienti da parte di famiglie e curanti, l’oscillazione - alcune volte
anche per il medesimo paziente - tra negazione del disagio, delle
difficoltà e senso d’impotenza paralizzante rispetto alle stesse
difficoltà. L’operatore e l’équipe si trovano così stretti nella
“tenaglia” di aspettative di guarigione e risoluzione definitiva delle
problematiche ed aspettative di segno opposto, di inutilità del proprio
intervento. Svincolarsi da questa stretta è operazione ardua e complessa
e richiede una grande dose di pazienza da parte dell’équipe di CT. A ciò
si aggiungono le ansie legate alle urgenze, spesso presenti nelle famiglie
dei pazienti e talora in alcuni colleghi collusivamente coinvolti, che
producono delle vere e proprie “accelerazioni temporali” nei vissuti
dei curanti che di fatto fanno perdere di vista alcuni bisogni
fondamentali del paziente e che peggiorano la lucidità dell’intervento.
Per uscire da questa empasse occorre in primo luogo e preliminarmente
ristabilire i tempi terapeutici idonei stabilendo una processualità e una
sequenza di tappe che allentino la tensione; successivamente occorre
sciogliere la matassa delle aspettative analizzandole insieme ai
protagonisti della cura, a cominciare ovviamente dalle proprie.
Successivamente ancora vanno posti alcuni obiettivi minimi auspicabili e
soprattutto realizzabili. Occorre inoltre, una volta posti tali obiettivi
minimi, ulteriormente temporalizzarli e definire alcune scadenze,
prendendosi però tutto il tempo necessario per svolgimento del lavoro.
Occorre dire che in generale, già dalle fasi iniziali di un rapporto
terapeutico, l’esplicitazione e la condivisione col paziente e la sua
famiglia di alcuni obiettivi, anche minimi o transitori, rappresenta un
punto di appoggio ineludibile per costruire con loro una primaria ed
embrionale forma di alleanza terapeutica. Il paziente e la sua famiglia
però, molto spesso, sembrano non avere alcuna idea, o hanno un’idea
molto confusa, della natura del problema che riguarda loro, questo
essenzialmente perché i problemi di natura “mentale” producono
spesso, come detto in precedenza, come effetto secondario la riduzione
dell’esame di realtà, a volte in forme estreme, per cui appare
difficile convergere con paziente e familiari su un terreno comune
riuscendo al contempo ad individuare insieme quali sono i veri “nemici
da combattere”. L’alleanza terapeutica non è dunque un’operazione
immediata e spontanea, ma passa probabilmente attraverso una fase
preliminare di “alleanza diagnostica”, indicando con questo termine la
paziente ricerca comune degli aspetti problematici principali, intesi come
aspetti-chiave della situazione del paziente e che egli stesso tende a
conservare e allo stesso tempo ad ignorare. Col passare del tempo e della
reciproca conoscenza, ci si augura che si sviluppi una sufficiente fiducia
da parte di paziente e famiglia che consenta l’articolazione del
progetto stesso attraverso obiettivi più specifici.
CONCLUSIONI
Il lavoro residenziale di una CT, attraverso la sua quotidianità, è
(chiarito il problema dei criteri selettivi) un potentissimo attivatore di
salute mentale, oltre ad essere un potentissimo e privilegiato setting
osservativo e terapeutico. Tale lavoro pone però preliminarmente, proprio
perché fondato sulla compartecipazione degli spazi psichici e fisici, i
problemi cruciali del rapporto tra osservatore e osservato e della
distanza tra parte curante e parte curata, tant’è che in tale contesto
diventa particolamente ardua l’individuazione di “cosa” osservare,
di “come” curare, e di quali sono i fattori di efficacia terapeutica.
Inoltre, la gravità della tipologia di pazienti che accede alla CT, pone
ulteriori problemi di gestione, di setting e di organizzazione, nonché
problemi di integrazione, di comunicazione e formazione dell’équipe
curante. L’idea di considerare l’articolazione delle aree mentali in
relazione isomorfica e dialettica con l’organizzazione dell’ambiente e
degli spazi di pensiero e di significazione all’interno di una
transizionalità circolare delle aree mentale e degli interventi, fonda
l’intervento comunitario sul concetto di globalità (di setting, di
campo relazionale, di percorso terapeutico): in questo senso la CT è il
luogo elettivo dell’integrazione degli interventi terapeutici. Il lavoro
con le famiglie degli ospiti di CT, lungi dall’essere una variante o
un’opzione del lavoro terapeutico con i pazienti nella CT, è invece
totalmente integrato allo specifico della CT e quindi essenziale per il
buon esito della terapia. Esso viene concepito come presa in carico della
multiappartenenza del paziente ai differenti contesti di vita e ai diversi
momenti fondativi della sua personalità (famiglia, gruppo sociale
ristretto e allargato) e come assunzione della “criticità” della sua
storia personale e familiare. Questo modo di prendersi cura di pazienti
psicotici richiede non indifferenti sforzi organizzativi ed economici, ma
soprattutto una motivazione particolarmente forte da parte degli
operatori.
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(*)
CONTRIBUTO PUBBLICATO, IN VERSIONE MENO ESTESA, IN “INTERAZIONI”, F.
ANGELI EDITORE
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